Il polemicone, su cosa sia meglio tra libro e film, è sempre sulle bocche noiose di tutti.
Persone a me care sostengono che si debba dimenticare il libro e prepararsi a guardare un’altra cosa.
Potrebbe essere giusto e facile da accettare davanti a registi potentissimi, forse. Ma se la ragione per cui vado a vedere il film è che mi è piaciuto il libro e se è lo stesso motivo per cui il regista lo ha diretto, ben difficile sarà scordarsi le parole di carta.
Io, comunque, non le scordo mai.
E dico “sCORdo” che, mi hanno insegnato, vuol dire lasciar andar via dal cuore, cosa davvero impossibile nel caso di certi romanzi.
DiMENTIcare, quello sì, si può fare, ché vuol dire lasciar andar via dalla mente accettando altri percorsi.
Non è mia intenzione infilarmi in questa polemica, dove per me quasi sempre vince il libro, come la canzone originale sulla cover, anche quando la cover l’ho sentita per prima.
Però, al contrario, esistono rarissime eccezioni in cui il film è meglio assai del libro da cui è tratto.
E non è che questo post serva a dimostrare che non ho letto soltanto le 50 sfumature, però anche.
E a proposito di sfumature, ieri ho visto il film e se puoi leggere un libro in diagonale, puoi anche vedere una pellicola di due ore in metà tempo… 25 sfumature di grigio e passa la paura.
Come mi aspettavo, meglio il film.
Lei è una deficiente che simula orgasmi ancora prima di spogliarsi, ma almeno non parla della sua “dea interiore” come fa nel libro. Lui nudo ha il suo perché, ma vestito non si può vedere. L’inevitabile superficialità di un film qui è estremamente funzionale e taglia i tempi morti e la noia di un libro idiota… al resto ho pensato io in fast forward.
Non serve un brutto libro perché il film sia migliore.
Grande piacere mi danno i romanzi di Nick Hornby, ma il suo più famoso, Alta fedeltà è decisamente più bello visto sullo schermo. Anzi diciamo pure che i suoi libri al cinema hanno reso sempre molto bene, almeno fino al 2000. Dopo conviene leggerli soltanto.
Alta fedeltà parla del gestore di un negozio di dischi, della sua ex tipa e di quella nuova, dei suoi commessi un po’ sfigati e di tanta buona musica molto citata e molto suonata. Sarà che gli attori sono quelli giusti – non è che John Cusack possa fare molto altro – sarà che sentirla, la musica, è meglio che parlarne; sarà che c’è Jack Black proprio come vuoi vedere Jack Black… insomma va tutto come deve andare e il film scorre liscissimo a botte di top five.
Via col vento è un libro grossissimo e un film lunghissimo. Una quantità di accenni storici – e di figli di Rossella – spariscono nel viaggio dalla carta alla pellicola. Così, per dire, la rappresaglia notturna del prode Ashley a metà film sembra un’azione eroica contro i briganti che hanno assalito Rossella, ma sono – è ben chiarito nel libro – i prodromi del Ku Klux Klan: gioiosamente giustificati dalla violenza portata dai nordisti e dalla liberazione dei neri dalla schiavitù.
Ma a noi ci piacciono i cappelli di paglia e i vestiti fatti con le tende, che ci frega dei cappucci bianchi.
Sorvolando su dettagli del genere e sui molti figli di Rossella, vien fuori un film senza opinioni da cui conviene imparare l’umanità di Melania Hamilton più che la storia degli Stati Uniti… ma forse è meglio non impararla manco dal libro, ecco.
Una gran lotta è stato, per me, Colazione da Tiffany, il libro intendo. Bellissimo romanzo, complessissimo il personaggio di Holly Golightly, alla continua ricerca del suo posto nel mondo, ma è una novella che lascia molti dubbi e finisce male, non sarebbe stato un film mai all’altezza del lavoro di Capote.
Così hanno fatto un altro film, che col libro non c’entra molto: una commedia romantichella con lieto fine e poca morale che ha però il pregio di essere esteticamente bellissima, un piccolo spazio per fare le femmine che vogliono essere Audrey Hepburn, cosa che a lei viene abbastanza bene, a voi, altre femmine, NO.
Nel febbraio 2010 Vogue Italia scriveva, e io appuntavo: “… è divenuta ormai cosa ovvia ispirarsi all’allure senza tempo di Audrey Hepburn; talmente facile che dovremmo smettere: emulare Holly Golightly, e in Givenchy, è da considerarsi un presupposto imprescindibile, non un obiettivo”. Che poi vuol dire che se la vostra massima aspirazione è quella, chissà da dove partite e quanta poca strada potete fare. Volevo dirvelo.
Io, per me, da grande voglio essere Bette Davis quindi ho altri pensieri.
Chiudo democristianamanete con un pari merito libro-film: Il figlio di Bakunin.
Sergio Atzeni ha scritto cose meravigliose tutte basate sulla realtà che conosceva, gli è bastata la finestra aperta sul rione popolare, il pranzo della domenica dai parenti più anziani, per costruire piccoli universi onesti e puliti e allo stesso tempo immensi e luminosi.
Il figlio di Bakunin, anzi Bakunìn, racconta la storia di un uomo, Tullio Saba, attraverso le testimonianze di tutti quelli che lo hanno incontrato. Nel susseguirsi di pagine, a ogni pagina è un ricordo vero o verosimile, stizzito o ammirato, spesso romanzato e ingigantito. Il film alterna le testimonianze statiche a più dinamici flashback e su carta e su pellicola il risultato non smette mai di essere poetico.
“Qui finisce quel che resta di Tullio saba nella memoria di chi l’ha conosciuto. Tutto quel che hanno detto ho registrato col mio Aiwa, tutto quel che ho registrato ho trascritto, senza aggiungere né togliere parola. Non so quale sia la verità, se c’è verità. Forse qualcuno dei narratori ha mentito sapendo di mentire. O invece tutti hanno detto ciò che credono vero. Oppure magari hanno inventato particolari, qui e là, per un gusto nativo di abbellire le storie. O, ipotesi più probabile, sui fatti si deposita il velo della memoria, che lentamente distorce, trasforma, infavola, il narrare dei protagonisti non meno che i resoconti degli storici”
… per non dire di chi racconta i film.
Ho studiato storia dell’arte per il solo gusto di correggere i refusi sui libri. Cucino e mangio molto. Scrivo, perché parlare ininterrottamente non mi bastava.
Ho anche un blog di cucina coerente, La Luisona e la Madeleine.