La mia casa: parte prima

tavolocucina

Questa mattina mi sono svegliato e ho finalmente deciso che la dimora in cui vivo ha, a ragione, diritto di pubblicazione. Io ormai ci vivo da parecchio, e non riesco più a coglierne le peculiarità ma mi sforzerò, poichè niente è al suo posto e all’occhio esterno risulterà, a farla breve, un troiaio.

Perchè la mia non è una casa, è più  un ecosistema, un luogo dove tutto sopravvive in bilico sul burrone, a partire dalle nidiate di polvere per finire con le bucce di banane. Gli abitanti sono 4, me compreso. Io vivo con la famiglia, ma ho appurato nel tempo che il rapporto è totalmente atipico e si vive più o meno come 4 studenti universitari. Nessuno si cura dell’altro, ci si vede di rado quando gli orari coincidono, non si mangia mai insieme, nessuno pulisce, nessuno s’incazza se nessuno pulisce, qualcuno s’incazza quando il livello di casino supera la calpestabilità del suolo, ma non viene ascoltato. Il qualcuno in questione, ignorato, viene preso da raptus zeracco e riordina. L’ordine ricreato però non è mai l’ordine di una casa normale, è il disordine di una casa normale, ma ormai siamo tutti abituati e il disordine normale ci soddisfa.

Negli angoli meno trafficati della mia casa vengono a formarsi delle concrezioni di oggetti dimenticati da dio negli spazi vuoti del pavimento per cui capita che, ad esempio, guardandosi attorno in questa stanza che dovrebbe essere un soggiorno gli oggetti atipici si sprechino: c’è un mobile per il computer, un acquario con i pesci, un pianoforte sommerso di cartacce, un divano letto semiaperto, uno stenditoio appeso alla finestra, una tv con una playstation (UNO) mummificata nel mobile sottostante.

Niente di strano.

Il problema è quando poi, guardando nelle zone che dovrebbero essere vuote, trovi una coperta sul pavimento, piegata amorevolmente che giace lì da circa un mese, un fucile giocattolo, anch’egli ormai parte integrante della coperta, una corda, scatoloni vuoti, scatoloni pieni di pietre, (DA DOVE SONO USCITE?) una ruota di camion con al suo interno montato un woofer, rotto, due palloni da calcio sgonfi, distese di scarpe probabilmente spaiate.

E questo è il minimo, perché l’ecosistema più interessante è il tavolo della cucina, eh sì: perchè lui, LUI, splende di luce propria. Il tavolo della cucina è come una sorta di Jenga, l’odioso gioco di società, ma al contrario:  resiste inalterato finché ogni centimetro non viene invaso da piatti-posate-scodelle. A questo punto si inizia, come nelle maggiori metropoli, a svilupparlo in verticale. Iniziano quindi a formarsi delle abili e precarie pile di piatti puntellati da posate, avanzi a scalare dal centro ai bordi in maniera piramidale onde evitare il crollo. Visto che a casa mia non si mangia mai insieme, l’equilibrio del tavolo si mantiene sino a quando un pezzetto dello stesso sia in grado di ospitare piatto, posata, eventuale pezzo di pane, bicchiere (ammesso che ce ne siano puliti) o in alternativa bottiglia. Nessuno si cura della sua liberazione finchè il Jenga-tavolo collassa. Quando non è più possibile ammucchiare, allora gli abitanti impazziscono, e seppur tentati di comprare un tavolo nuovo, si chinano al volere di dio e riportano la situazione a zero. Ora ho fame e vado a mangiare, nella speranza che un angolo sia libero.

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