“I pellerossa sono stati invasi e hanno combattuto con fierezza, per questo non potevano che perdere contro un nemico e una civiltà tanto più potenti di loro. Gli zingari sono gli invasori che non combattono. Per questo non perderanno. Non perderanno più di quanto non perderemo alla fine tutti quanti.”
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Siamo zingari di merda? Per dio, no. Noi siamo persone per bene. Perché noi siamo nel giusto, siamo quelli che possono condannare, e guai a cambiare punto di vista, guai a farsi delle domande che rischiano di minare la solidità della nostra opinione. Siamo quelli che bastano due minuti per scegliere da quale parte stare. La parte più comoda, è chiaro. Senza guardare, che guardare è faticoso. Senza scostarci dall’opinione delle persone con cui andiamo a bere lo spritz il venerdì sera, mentre annoiati chiacchieriamo dell’ultimo spettacolo teatrale a cui siamo stati: “Che sensibilità, che raffinatezza.” – “Ma l’hai visto il video di quei pezzi di merda della LIDL?” – Non sono uomini, sono mostri. Mi fanno vergognare di essere un uomo. “Chiuderei loro in una gabbia. Altroché. Spero che li licenzino e che vengano condannati per sequestro di persona.”
Da “Zingari di merda” – Antonio Moresco (2008)
Gli zingari sono la parte più miserabile e più irriducibile di questo fiume. La loro economia subalterna e parassitaria si modella su ogni più piccola piega dell’economia dominante, legale e illegale, riciclo e rivendita di materiali scartati, piccoli lavori regolari, accattonaggio, furti, prostituzione, spaccio… Eppure, nonostante questo, gli zingari non hanno costruito una forte struttura criminale gestita da loro stessi, come hanno fatto altre popolazioni migranti, i siciliani con la mafia, gli albanesi, i cinesi… pur avendo come pochi altri mobilità, duttilità e imprendibilità. Perché non hanno dietro di sé stati, strutture politiche ed economiche su cui incernierare le loro organizzazioni, per il loro individualismo e il loro fatalismo. Nella grande maggioranza sono poveri ed emarginati dal resto della popolazione qui quasi come in Italia, però almeno in Italia si trovano ad avere attorno a sé una società e un’economia più ricche, da cui poter ricavare qualcosa di più. In una giornata di accattonaggio in Italia, ad esempio, una donna zingara porta a casa in media circa trenta euro, il triplo dello stipendio medio di un operaio qui a Slatina. Intanto i mariti e i figli si aggiustano con lavori sottopagati nell’edilizia, nei magazzini, nelle stalle, nelle campagne, in qualche caso con piccoli furti, spaccio, prostituzione, in casi rari con qualcosa di ancora più abietto. Ne parliamo io e Giovanni, di sera. Perché persino tra i rifugiati della Snia, in mezzo agli zingari che lottavano al buio, con le unghie e coi denti, per strappare una ragazza alla prostituzione, contro altri corpi venuti a rapirla, c’era anche qualcun altro, ragazza e ragazzo, che si prostituiva. Persino genitori che vendevano il corpo del proprio bambino di sette, otto anni ai pedofili, come carne da macello gettata in pasto ai cannibali adulti del paese più ricco, che così non hanno neanche più bisogno di prendere gli aerei e di andare a profanare e a mangiare i bambini e le bambine nel Sud-est asiatico. “Mi viene in mente una cosa che mi ha lasciato una strana impressione” dico a Giovanni “Quando sono venuto la seconda volta alla Snia, se ti ricordi, dopo la prima demolizione, c’è stato uno zingaro, scuro di pelle come un indiano, che quando ci ha visto passare per il vialetto pieno di baracchine, topi morti schiacciati, poltrone sbudellate recuperate dalle discariche e mucchi di immondizie, ha insistito perché entrassimo anche nel rudere semidemolito dove viveva con la sua famiglia. Noi gli abbiamo detto che lo avremmo fatto dopo essere passati da un altro paio di baracchine. Quando poi siamo passati anche da lui, e siamo entrati dentro il suo misero rudere liberato con cura dalle macerie e dai calcinacci, abbiamo visto che, al centro della scena, c’era un bambino nudo dentro una tinozza di metallo piena d’acqua portata lì con le taniche dalla fontanella del cimitero. Qualcosa in quella scena mi aveva colpito. Il bambino sembrava non poterne più di stare nudo lì dentro, protestava, si lamentava. Il padre gli ordinava di stare nella tinozza, mentre noi lì vicino parlavamo seduti su delle poltroncine e delle seggiole scalcagnate e bevevamo il caffè e la CocaCola che ci avevano offerto. Alla fine al bambino è stato permesso di uscire dalla tinozza. Lo hanno asciugato ben bene con un asciugamano ed è scappato via. Dopo quella dimostrazione, il padre ci ha tenuto a dire che loro erano puliti, che andavano sempre a prendere l’acqua, che si lavavano. Erano tutti particolarmente gentili, cerimoniosi. Scusa, Giovanni, ma per un momento mi è venuto da pensare che ci avessero appena mostrato la merce… Per cui poco fa, quando mi hai parlato di uno di loro che vende il bambino ai pedofili…” Giovanni abbassa gli occhi. “Sì, potrebbe essere proprio lui.” Restiamo in silenzio per qualche istante. Poi Giovanni mi parla del suo disagio perché adesso sa questa cosa, di gente che offre forti cifre a questi miserabili perché gli diano in pasto il bambino e di questi che non sanno resistere e accettano, e non sa come fare, se continuare ad aiutare anche chi si comporta in questo modo oppure no. La telefonata che ha ricevuto poco fa sul cellulare era proprio della madre di quel bambino, gli chiedeva se era già riuscito a trovare per loro una casa a Pavia. Io mi ero accorto che Giovanni rispondeva in modo laconico, spazientito. “Ho persino litigato con un paio di persone” mi dice “che sono arrivate a darmi del razzista perché facevo queste distinzioni. Loro giustificano tutto con la povertà, la miseria, il bisogno, sembra che la cosa non gli faccia in fondo né caldo né freddo, che gli vada bene…” “Ma sì, perché l’hanno ficcata dentro un sistema di idee, che li mette al sicuro dall’orrore e dal male, che gli fa comodo, che alimenta la loro falsa coscienza. Sono degli scellerati anche loro, con tutte le loro coperture ideologiche e politiche, non si rendono conto che così facendo sono anche loro complici di questa profanazione e di questa carneficina. Scusa, Giovanni, ma io su queste cose non ragiono, non riesco ad accettare o a inventarmi delle relativizzazioni e delle giustificazioni. Riesco a capire lo sconfinamento nella piccola criminalità per chi vive dentro questo cerchio infinito di marginalità e di persecuzione, ma chi vende e fa strazio del corpo e della persona del proprio figlio bambino e lo dà in pasto a questi bravi e luridi cittadini, magari di giorno anche loro razzisti e xenofobi come si conviene ma che poi di notte si aggirano attorno a questi ruderi subumani con il portafoglio pieno di soldi e la lingua fuori, io questo non lo giustifico, non lo accetto. Neanche la povertà, la miseria me lo rende accettabile, perché anche tra i miserabili, sempre, in ogni situazione, in ogni epoca, c’è chi fa queste cose e chi non le fa, e se io non voglio vedere questo schiaccio e uccido ogni differenza, non riesco a cogliere la disperata forza della vita nel suo movimento verso la luce e la sua tragica libertà. Queste coperture ideologiche di chi fa della miseria una causa, un indistinto, un feticcio, di chi vuole vedere come unico motivo di tanta abiezione la sola condizione economica e ambientale e che si rifiuta di vedere e patire questa carneficina, a me fanno orrore. Perché anche in queste catene di tragedie e abiezioni sociali e ambientali c’è chi porta sulle proprie spalle più di ogni altro il peso di tutto. In questo caso è quel bambino, e io sono completamente e visceralmente dalla sua parte. È quel bambino che porta la croce per tutti, per quegli animali che gli sfondano il culo, per i suoi scellerati parenti e per tutti noi. Così come ci sono in Italia trentamila ragazze rumene, delle quali il cinquanta per cento bambine, tenute schiave da criminali rumeni foraggiati dai maschi italiani con almeno duecento milioni di euro all’anno. E non riuscire a vedere queste cose, stare con la testa in un rassicurante bozzolo ideologico o sociologico di omertà razionalizzata e di mala fede e non riuscire a distinguere chi regge il peso di tutto questo sul proprio piccolo corpo ti rende complice di questo orrore.” Tutto è mosso. Se si va vicino, molto vicino a tutta questa disperazione e a questa ferita, si vede che è tutto mosso, che ci sono le oscurità e le luci, le persone diverse ciascuna chiusa nel proprio involucro di carne, le singole vite, che persino sui bordi di questa piaga tutto si divincola e brulica, come i microrganismi e le cellule che combattono alla cieca per la propria esistenza e salvezza fin dentro il cuore della materia infettata. Niente è fermo. Nell’indistinto ogni cosa si muove. C’è qualcosa, da una parte e dall’altra, dalla parte degli zingari e da quella degli altri e persino dei nemici degli zingari, che non sta mai fermo, si muove. Non bisogna nascondersi una parte della verità per far andare a posto le cose.
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Da noi alcuni si fermano, altri no. Alcuni trovano un lavoro e si adattano a farlo, mandano i bambini a scuola. Altri no. Continuano a spostarsi, a vivere di espedienti, rimangono irriducibilmente zingari nella testa. Mi hai detto che in Italia ci sono circa centomila zingari, l’ottanta per cento di nazionalità italiana. I passaggi non sono mai netti. C’è una compresenza di diversi modi di vivere, quello precedente e quello dettato dalla necessità di aderire alla situazione attuale, sono come quegli animali che conservano nel loro corpo organi di una specie e altri di un’altra. Si spingono in zone più ricche dove si installano con le loro piccole economie parassitarie, trovano delle persone buone come te che non riescono a tollerare la vista di una simile miseria e degrado e li aiutano, fanno delle battaglie civili per loro, accettano di vivere come nessun altro riuscirebbe a vivere però vanno avanti, con la loro irresistibile potenza riproduttiva gettata geneticamente allo sbaraglio, con la loro irriducibile e misteriosa identità. L’esistenza, ancora oggi, di un simile popolo non si spiega solo con i meccanismi economici. Ci sono strutture precedenti che non si sciolgono dentro l’acido totalizzante dell’economia e dell’influenza ambientale. Nella presenza degli zingari c’è qualcosa che non è spiegabile secondo i soli parametri economici e sociali e che affiora da strutture precedenti che non si sono diluite del tutto, che questo strano, inspiegabile popolo ha conservato in sé attraverso il tempo e lo spazio. Ti devo dire sinceramente come la penso. Noi facciamo bene a raccogliere informazioni economiche, sociali. Aiutano molto a capire. Ma non sono tutto. Non sono sufficienti per farci capire fino in fondo l’esistenza di questo popolo infinitamente duttile e mobile, ma che nello stesso tempo si muove in ogni paese e in ogni continente come l’olio nell’acqua. Fai bene a lottare perché abbiano uguali diritti e uguali doveri, ma nello stesso tempo bisogna rispettare e accettare la loro diversità e inspiegabilità, altrimenti è solo una forma di paternalismo che vorrebbe assimilare ogni cosa, rendere anche questo popolo uguale a noi, visti come la misura e il modello di tutte le cose. Attorno agli zingari, da una parte e dall’altra, c’è molta demagogia, feticismo, proprio perché la loro diversità crea problema, quando non addirittura spavento. Questo popolo senza una tradizione scritta, senza uno stato, senza un esercito, che sembra uscire dal nulla, diviso in mille rivoli e per niente solidale e unito ma che mantiene a dispetto di tutto i suoi tratti inconfondibili. C’è chi ne fa un feticcio negativo e ne vede solo il male, i mendicanti, i parassiti, i ladri, gli anti-sociali, i devianti, gli incontrollabili, preda di paure dove sembrano riaffiorare le prime laceranti e feroci divisioni tra i nomadi e i sedentari, tra i popoli che vivevano di caccia e quelli che hanno cominciato a praticare l’agricoltura, che hanno spaccato il genere umano per lungo tempo e da cui sono nate le nostre civiltà. Le risposte che danno alle loro paure, ai loro terrori sono, oltre che inaccettabili e odiose, stupide, miopi, sbagliate. Eppure rivelano una percezione primordiale che coglie un aspetto intimo che altri si rifiutano o non sono in grado di cogliere: che non si tratta di semplici spostamenti di piccoli gruppi trascinati qua e là dal mercato del lavoro ma di vere e proprie migrazioni, delle prime avvisaglie di migrazioni infinitamente più grandi che avverranno con ogni probabilità nel futuro come conseguenza degli incorreggibili meccanismi economici e politici umani e dei probabili disastri naturali che ci aspettano. E credono che i loro stupidi, miopi ostracismi li metteranno al sicuro da tutto questo. E poi c’è chi, altrettanto stupidamente, ne fa un feticcio positivo e una caricatura di segno opposto: gli zingari felici, con la loro libertà e i loro stracci colorati, le loro musiche, i loro balli e le loro feste, con il loro rifiuto dei nostri modelli economici e sociali di vita, il regno anarchico della libertà. Ne fanno la versione moderna del buon selvaggio, sono sempre in cerca di una causa che li faccia sentire bene, nel giusto, dopo che altre cause sono miseramente fallite. Sono tutti e due soltanto modi diversi per disinnescare l’indigeribilità di questo popolo incomprensibile e inestirpabile. Un popolo che conserva costumi e modi di vivere che vanno per conto proprio rispetto a quelli degli altri popoli, ai popoli gagé in mezzo ai quali si trovano a vivere, nei confronti dei quali mantengono il più delle volte un atteggiamento strumentale e ostile. Mai avuto nella loro storia uno stato, un esercito, mai dichiarato guerra a nessun altro popolo eppure in guerra contro l’intero mondo che li circonda. Neppure una struttura criminale centralizzata con cui farsi largo durante la penetrazione nei territori alieni. Nessuna identità costituita come una legge, nessuna tradizione scritta che permetta di fare luce sulle origini e sulla storia di questo misterioso popolo, che mantiene tutta la sua diversità, la sua disperata energia e la sua forza nel piccolo mondo globale che solo poco tempo fa aveva teorizzato la fine della storia e della possibilità stessa dell’esperienza nell’illusione infantile e senile di conservare per sempre la propria terminalità. Barbari che vengono prima ancora dei barbari, prima ancora che si formassero le strutture guerriere barbare in grado di dare il cambio alle precedenti strutture imperiali nate da precedenti barbarie. Gli ebrei -altro popolo misterioso ai quali gli zingari vengono spesso paragonati per cercare di capirne qualcosa, hanno espresso di nuovo dal loro interno uno stato, un esercito, una forza politica e culturale strutturata e globalizzata. E hanno una forte tradizione scritta, hanno un libro, anzi il Libro, sono stati persino chiamati il popolo del Libro. Gli zingari non hanno niente di tutto questo. Il loro universo preindustriale è mobile persino nella sedentarietà, molti di loro cambiano spesso lavoro, anche quando si fermano a vivere in uno stesso posto, non sembrano interessati a esperienze lavorative di lunga durata o a tempo indeterminato, anche quando si sedentarizzano mantengono una loro pendolarità spaziale e mentale. Si adattano a ogni ripiego. Il popolo libero si trasforma nel popolo di servizio, che si adatta a servire persino le esigenze più ignobili dei popoli da cui strappano a brani la propria sopravvivenza. Non pare esserci un ordine preciso, una direzione, un comando, che spieghi perché questo popolo continua a migrare, questo fiume continua a scorrere. Questo misto di libertà e opportunismo, di fierezza e di infingardaggine, di irriducibilità e di parassitismo.
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“Io qui ho avuto sette spose!” dice d’un tratto “Una di loro, quella che ho amato di più, era una prostituta.” Si interrompe un istante. “Le puttane sanno come farti andare fuori di testa” conclude. “Sette spose compresa la sorella di Lùcica?” gli chiede Giovanni. “No, sette oltre a quella.” “Ma proprio mogli?” “Per noi zingari basta che una venga nella tua casa e dorma con te che è già la tua sposa.” “Ma intanto eri già sposato con la tua moglie di adesso?” “Sì.” “E lei lo sapeva?” “Certo che lo sapeva! Io non le ho mai nascosto niente! Certe volte stavo via di casa anche per settimane intere. Lei mi chiamava sul cellulare. ‘Dove sei?’ mi chiedeva. ‘Perché me lo chiedi? Lo sai dove sono!’ Ma non mi sono mai dimenticato della famiglia, mandavo metà dei soldi che riuscivo a procurarmi alla mia famiglia e metà li davo a quell’altra.” “E tua moglie non diceva niente?” A questo punto Dumitru si abbandona a una terribile esplosione di sincerità. Il tutto dura pochi minuti ma ci lascia senza fiato, e ci fa capire come sia pesante -più ancora di quello degli zingari maschi- il peso portato dalle zingare femmine. “Dire qualcosa? Ma stai scherzando? Le nostre donne non si devono azzardare ad aprire bocca, se no le massacriamo. Ma proprio niente devono dire, neanche tanto così, non devono neanche fiatare. Quando ci scateniamo devono solo stare basse e aspettare che sia finita, guai se sentiamo una sola parola, un sospiro, perché allora è peggio. Non è che le pestiamo, le massacriamo. Non so se hai visto bene la testa di mia moglie. È rotta in due punti, ha due buchi grossi così. Ha anche un braccio rotto. Devo usare un cavo di gomma perché con le mani nude l’ammazzerei. La vista del sangue non mi ferma, mi scatena ancora di più. Non mi fermo fino a quando è distesa a terra piena di sangue e non si muove più.” Si interrompe. Ci guardiamo senza fiatare. “Lo vedi che pezzi di merda sono gli zingari!” conclude un istante dopo.
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Da “Zingari di merda” – Antonio Moresco (2008)
Sono uno che si dimentica tutto.
uno che si è dimenticato cosa significa andare dal parrucchiere.
Sono uno che ride da solo.
Sono uno che non piange da solo.
Sono uno che odia le cose preconfezionate.
Sono uno a cui piace smontare le cose.
Sono uno a cui piace anche rimontarle, le cose.
Sono uno a cui non piacciono i dolci, ma la panna montata sì.
Sono un montato, come la panna, ma ho superato i 33 anni, quindi sono rancido.
Sono uno che non si entusiasma mai, oppure che si entusiasma troppo.
Sono uno a cui piace conoscere la gente rotta.
Sono uno che si rompe in fretta della gente che non ha dubbi.
Sono uno a cui piace il silenzio senza gli imbarazzi del silenzio.
Sono uno a cui piace ascoltare il fondo del mare.
Sono uno a cui piace guardare il fondo del bicchiere.
Sono uno a cui piace toccare il fondo.
Risalire, anche risalire mi piace, ma per arrivare alla cima ci sono molte strade, e io sono ancora fermo all’incrocio.